Il grande caos delle unità di misura: una storia di grandezze e diavolerie!
Stavo parlando, come spesso mi succede, con un gruppo di ragazzi. Ragazzini vivaci, pieni di energia, sulle gradinate di un campo di calcio, dove le idee corrono veloci quanto i loro piedi. E tra una battuta e l’altra, salta fuori la solita storia: il papà vuole che suo figlio diventi medico. Una buona professione, senza dubbio. Ma il punto non è questo. Il punto è che il ragazzo non vuole fare il medico. E allora, che si fa?
Questa situazione mi lascia sempre perplesso. Perché mai gli adulti si ostinano a plasmare i figli a loro immagine e somiglianza? Non stiamo parlando di tramandare con amore una passione o un mestiere, ma di imporre un sogno che non appartiene al ragazzo, ma al genitore. Gli adulti si riempiono la bocca di frasi come “lo faccio per il suo bene,” ma la verità è un’altra: spesso lo fanno per il proprio ego, per vedere in quel figlio una continuazione di sé stessi, una sorta di eredità vivente.
Ed è qui che scatta un meccanismo subdolo: l’abitudine di dire “No.” “Non fare questo, non fare quello, non pensare in quel modo.” Il NO diventa il filtro attraverso cui gli adulti guardano e giudicano il mondo dei ragazzi, come se tutto ciò che esce da quei pensieri giovani fosse un errore da correggere. Ma dire NO è facile, è la via breve, è un riflesso quasi automatico. È il modo in cui un genitore impone la propria volontà senza lasciare spazio alla scoperta, alla sperimentazione. Dire NO significa spegnere sul nascere un’idea, un desiderio, e sostituirlo con la paura di sbagliare.
Eppure, c’è un’alternativa: chiedere, anziché imporre. Provare a trasformare quei NO in domande aperte, in conversazioni che liberino il pensiero del figlio invece di ingabbiarlo. “Che cosa vorresti fare?” “Cosa ti piacerebbe scoprire?” “Come ti immagini il tuo futuro?” Queste sono domande che non limitano, ma aprono. Che non guidano con la mano ferma dell’adulto, ma offrono uno spazio dove il ragazzo può esprimersi, provare, fallire e riprovare.
È difficile, lo so. Gli adulti sono abituati a pensare di sapere meglio, perché hanno vissuto di più, hanno visto di più. Ma l’esperienza, per quanto preziosa, è anche un fardello che ci fa vedere il mondo con gli occhi del passato, mentre i ragazzi vivono nel futuro. Continuare a dire NO significa imporgli un presente che non gli appartiene, farli vivere in una realtà che è già stata, che non è più la loro.
E così, senza accorgercene, li stiamo soffocando. Li priviamo di quella meravigliosa sensazione di scoperta, di quella libertà di sbagliare che è fondamentale per crescere. Li costringiamo a seguire un percorso che non hanno scelto, solo perché ci dà sicurezza, ci fa sentire che stiamo facendo la cosa giusta.
Ma la verità è che fare la cosa giusta non è dare tutte le risposte, ma insegnare a fare le domande. Non è imporre una strada, ma camminare accanto a loro mentre scelgono la loro. Perché se vogliamo davvero che i nostri figli diventino adulti capaci, sicuri di sé e felici, dobbiamo avere il coraggio di lasciare che siano loro a disegnare il proprio futuro, e non noi.
E qui c’è il primo errore: i consigli degli adulti non sono verità assolute. Anzi, spesso sono sbagliati, perché i ragazzi non hanno la nostra testa, i nostri problemi, e non devono averli. Eppure, ci ostiniamo a dare suggerimenti, a imporre direzioni come se la nostra esperienza fosse una mappa perfetta per orientarsi nel loro futuro. Ma la realtà è ben diversa: quella che noi chiamiamo saggezza è spesso solo il peso delle nostre delusioni, delle nostre paure e dei nostri rimpianti. Tendiamo a dimenticare che i ragazzi vivono in un mondo diverso, un mondo fatto di possibilità infinite, di sogni ancora puri, non contaminati dalle aspettative sociali, dalle convenzioni, dal cinismo che accumuliamo crescendo.
I loro pensieri non sono ancora appesantiti da bollette, mutui, carriere da costruire o mantenere. Non vivono ancora nella gabbia di preoccupazioni quotidiane che ci condizionano, e questo è il loro dono più grande: la libertà di immaginare senza limiti, di vedere orizzonti che noi abbiamo smesso di vedere. E allora, come possiamo pretendere che accettino di buon grado di seguire strade già tracciate, di portare avanti obiettivi che non sentono propri? È come chiedere loro di indossare scarpe troppo strette: il passo diventa faticoso, ogni movimento è un dolore.
Imporre la nostra visione del mondo significa forzare i ragazzi a vivere in un presente che non appartiene a loro, ma a noi. È come sovrapporre il nostro passato al loro futuro, spingendoli a ripetere scelte che noi stessi abbiamo fatto, senza lasciarli esplorare, scoprire e, sì, anche sbagliare. Perché è proprio dallo sbaglio che nascono le intuizioni più importanti, è dal fallimento che si impara ad alzarsi e a cercare una strada diversa.
I ragazzi sono sognatori, esploratori per natura. Quando imponiamo loro il peso dei nostri consigli, quando li obblighiamo a seguire percorsi già battuti, stiamo in realtà tarpando le loro ali. E lo facciamo per paura, per protezione, ma anche per egoismo. Vogliamo vedere in loro la realizzazione di sogni che non siamo riusciti a concretizzare, sperando che il loro successo possa riscattare i nostri fallimenti. Ma i ragazzi non sono i nostri risarcimenti emotivi, né la nostra seconda chance.
Forse dovremmo fermarci e riflettere su questo: i nostri consigli, per quanto benintenzionati, sono spesso lo specchio delle nostre insicurezze, non delle loro aspirazioni. La verità è che abbiamo paura di lasciarli andare, di vedere che scelgono una strada diversa, di accettare che il loro percorso possa portarli lontano dai nostri desideri. Ma se vogliamo davvero il loro bene, dobbiamo avere il coraggio di lasciarli sbagliare, di lasciare che scoprano da soli cosa significa essere felici. Perché la felicità non è seguire una strada tracciata da altri, ma avere il coraggio di percorrere quella che si sente propria, anche se è piena di ostacoli e di curve inaspettate.
E allora, forse, il nostro compito non è dare loro delle risposte, ma aiutarli a fare le domande giuste. Non è fornire una mappa, ma insegnare loro a orientarsi nelle tempeste della vita, con la bussola del proprio cuore.
Forse, quando un genitore insiste perché il figlio segua la sua strada, dovrebbe fermarsi un attimo e chiedersi: *Per chi lo sto facendo davvero?* Se la risposta è “per lui,” allora c’è un problema. Perché chi è che conosce meglio i sogni di un ragazzo, se non il ragazzo stesso? La verità è che spesso stiamo parlando di adulti egocentrici, che vedono nei figli la proiezione dei propri fallimenti e dei propri rimpianti, e cercano di riscattarsi attraverso di loro. E questo, diciamolo chiaramente, è egoismo, non amore.
E poi c’è l’esempio che diamo a questi ragazzi. Dovremmo essere modelli di integrità, di onestà, di altruismo. Ma l’esempio che ricevono dagli adulti è tutt’altro che ammirevole: guerre, corruzione politica, bugie elettorali, interessi economici sopra ogni cosa. È così che vogliamo che i ragazzi crescano? Guardando il mondo che abbiamo creato e pensando che questa sia la normalità? E allora sì, forse quei ragazzi hanno ragione a ribellarsi ai nostri sogni, a rifiutare i nostri consigli.
Il nostro compito non è dare loro una strada preconfezionata, ma aiutarli a trovare la loro. Dovremmo essere guide, non direttori d’orchestra. Dovremmo ascoltarli di più, e parlare un po’ meno. Perché forse, se ci fermassimo ad ascoltare davvero, con il cuore aperto e le orecchie libere dai rumori del nostro ego, scopriremmo che i loro sogni sono molto più puri, più giusti, più semplici dei nostri. Sogni che non conoscono il peso della paura, che non sanno ancora cosa significhi fallire, che non hanno il retrogusto amaro del rimpianto.
E allora, il vero atto d’amore, quello disinteressato, è lasciare che sbaglino, che si perdano, che cerchino la loro strada, anche quando questa strada ci sembra sbagliata, troppo difficile, o lontana da ciò che avevamo immaginato per loro. Perché quei passi incerti, quelle deviazioni, quegli errori sono in realtà il loro cammino verso la vita che li aspetta, verso la persona che stanno cercando di diventare.
C’è qualcosa di straziante e meraviglioso nel vedere un figlio camminare lontano, nel sentire che non ha più bisogno della tua mano per guidarlo. È un dolore dolce, simile a quello del taglio del cordone ombelicale: fa male, sì, ma è necessario. È il segno che sei riuscito nel tuo compito più difficile: hai dato loro la forza di volare con le proprie ali, senza paura di cadere.
E allora, nel silenzio di quella rinuncia, capiamo che non c’è regalo più grande che possiamo fare ai nostri figli che lasciarli liberi di essere sé stessi, di vivere sentendo la propria anima, e non l’eco delle nostre ambizioni. Perché solo quando li vediamo allontanarsi, camminare nella loro direzione, anche se diversa dalla nostra, ci rendiamo conto che il nostro amore non li ha legati, ma li ha liberati.
E forse, un giorno, torneranno da noi, non come proiezioni dei nostri sogni, ma come esseri completi, grati non per ciò che abbiamo imposto, ma per ciò che abbiamo lasciato andare. E in quel momento, potremo finalmente piangere, non di tristezza, ma di un’emozione pura e sincera, perché avremo davvero imparato cosa significa amare senza condizioni.
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